Homo Ludens Ludens, esplorare l’essenza dei videogame

Homo Ludens Ludens

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Il solo gran parlare dei videogame (che non si ferma da cinque anni almeno) poteva costituire un’ottima ragione per spingere la mastodontica istituzione asturiana “Laboral” (che s’interessa di arte, scienza e tecnologia) ad investire un po’ di risorse nel campo in oggetto. Ma ciò che è stato fatto, sotto l’ispirata e risoluta guida dell’ex direttrice di Arco, Rosina Gómez-Baeza Tinturé, è stato sviluppare una trilogia di mostre arricchite con un fitto programma di conferenze, seminari e workshop. Il notevole risultato finale è stato che un’ampia fetta dell’intersezione fra arte e videogame è stata ospitata a Gijon durante l’ultimo anno. “Gameworld” è stata la prima, come pure una delle quattro mostre che hanno inaugurato ufficialmente Laboral. Curata da Carl Goodman (American Museum of the Moving Image), e Daphne Dragona, (festival Mediaterrae) ha sfoggiato quaranta artisti e game designer divisi in tre categorie: “Digital Game Canon” (pietre miliari dei videogame), “Games Recoded” and “Experimental Gameplay” (arte e videogame), e “World/Game” (rappresentazione e simulazione dei videogame). “Playware” è stata la seconda mostra, definita come un “expansion pack” (il tipico software addizionale che permette di aggiungere contenuti o funzionalità al gioco originale), ed è stata curata nuovamente da Carl Goodman e da Gerfried Stocker (direttore artistico di Ars Electronica). Infine, l’attuale “Homo Ludens Ludens“, curato da Erich Berger, nuovamente da Daphne Dragona e da Laura Baigorri. L’atto finale sembra rappresentare la summa del discorso iniziato un anno fa. Cercando di catturare l’imprendibile essenza del giocare di fronte agli schermi retro-illuminati, qui i lavori coinvolti compongono un intricata composizione di sfruttamento bieco dell’interfaccia, ambivalenze reale/virtuale, uso improprio delle regole e dei preconcetti, e scrutinio scientifico dei comportamenti dei giocatori. I visitatori si trovano di fronte a diversi segnali significativi: gli eccitanti segnali stratificati del gioco dalla concettualità spaziale dei Ludic Society (“Objects of Desire”), l’interfaccia emozionale hardcore in reverse engineering di France Cadet in “SweetPad“, i bizzarri giochi d’identità di Molleindustria in “Faith Fighting”, così come Julian Olivers e il suo “levelHead”, che gioca concettualmente con lo spazio, or il niente dolore/niente gioco in “Constraint City” di Gordan Savicic, fino ai documentari (o ai lavori che documentano l’atto del giocare, le sue attitudini e il suo contesto). La mostra riflette l’attitudine dei videogame a incorporare il fattore interattivo in simulazioni astratte attraverso aggiramenti dei limiti percettivi. la loro grammatica ha già cominciato a diventare un esperanto per elaborare conflitti e relazioni. La gestualità del visitatore, il mashup dei sensi e il testing continuo della sua coordinazione, assorbono attivamente il database di senso e coinvolgimento che si sviluppa continuamente nello spazio espositivo.