Arche-scriptures, tangible records

arche-scriptures

Seduti sul bordo ad una buca simile a quella di uno scavo archeologico: questo è l’assetto per esplorare Arche-scriptures, dell’artista Alberto Harres. Apparentemente l’opera sembra un semplice frammento di ceramica di forma quadrata decorato da un’incisione. Nell’installazione tuttavia le informazioni incise vengono decrittate da un apposito lettore: e così nelle cuffie risuonano echi di voci estratte dall’ Pandemic Archive of Voices, un database di 185 registrazioni vocali registrate da 24 speaker in 24 differenti lingue durante il recente periodo pandemico. In particolare in cuffia viene restituito il suono della parola “dalijna”, che in croato significa “distanza”. La prima domanda a sorgere è: distanza da cosa? Forse questo lavoro è un modo per dare una forma solida, prendere distanza e “sotterrare” quanto vissuto in questo specifico periodo storico? Oppure al contrario è un simulacro per enfatizzare e mai dimenticare, un simbolo tangibile di un mondo passato di cui lasciare profonda materiale testimonianza? Ed inoltre il messaggio nascosto nell’incisione è davvero immutabile immutabile come sembra essere nella sua fisicità, pur legato com’è ad un archivio sonoro che potrebbe cambiare nel tempo? L’esperienza di quest’opera disegna un rapporto caotico con il nostro recente passato e riflette sulle nostre tracce digitali con una prospettiva speculativa e dialettica. L’intellegibilità di un’iscrizione non è qui risolutiva o epifanica rispetto ad usi e costumi di una civiltà passata, non si risolve con la testimonianza sonora di dati archiviati e iscritti nella pietra, ma innesca invece un profondo corto circuito: le voci sono già rese come reperti archeologici come se fossero ormai scomparse nel tempo? Oppure che la loro immaterialità intrinseca viene fisicamente legata ad una materialità criptica ed a un altrettanto criptico dispositivo di decrittazione?
Scrivi a Chiara Ciociola

 

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