September 12th, this is not a game.

La mancanza di tensione, i pianti realistici, e soprattutto la completa assenza di un qualunque vincitore, sono tutti tabù per gli addetti all’entertainment giocoso, che invece hanno la necessità di tenere senpre alta e positiva la tensione di gioco. September 12th comprende queste e altre caratteristiche antagoniste alla spettacolarità e alla giocabilità di un prodotto commerciale. Il videogame diventa un medium di simulazione critica, efficacissimo nell’usare la stessa arma di astrazione di un conflitto, ossia quella dell’interfaccia e delle immagini elettroniche, per visualizzarne la reale drammaticità. Il giocatore può solo spostare la sua visualizzazione e sparare missili (oppure astenersi dal farlo), colpendo inevitabilmente anche civili, bambini e distruggendo abitazioni. I morti si accasciano per terra, ma senza alcun gusto per l’orrido, mentre qualcun’altro si dispera con le stesse movenze di un personaggio da videogame, mettendo in scena la metafora di scene viste in tv centinaia di volte. Liberamente fruibile online, il gioco ha un’altra caratteristica importante, ossia quella di non avere una fine prestabilita, lasciando che sia l’utente a decidere di smettere, un po’ come sta avvenendo nella realtà. Il territorio è reso con una prospettiva isometrica, già consacrata come archetipo del videogioco da John Haddock nella sua serie di ‘Screenshot’, celebri fotografie di cronaca nera tradotte visivamente in ‘schermate’, e rappresenta una finestra culturalmente ‘scomoda’ per l’utente, che però finalmente può guardare ‘con gli occhi del nemico’.