Dakota Suite | Vampillia – The Sea Is Never Full

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CD – Karaoke Kalk

All’ascolto iniziale della prima parte di The sea is never full l’impressione è subito quella di una celebrativa e beatifica composizione di taglio classico, gentile nelle trame pianistiche, con sequenze imbastite grazie ad evoluzioni chitarristiche di marca sperimentale e improvvisativa, strumenti a corda, arco e basso. Lo svolgimento evoca atmosfere piuttosto cupe ma tuttavia non troppo insistite ed estreme, che solo successivamente si tingono di trattamenti più crudi, che scopriamo essere una testimonianza catartica del disastro nucleare di Fukushima, in Giappone, nazione nella quale erano in tourné proprio nei giorni di quella epocale catastrofe i Dakota Suite, combo solitamente variabile e aperto a più collaborazioni, composto per l’occasione da Chris Hooson e David Buxton, ai quali si sono affiancati i Vampillia, alternative band di Osaka avvezza ad un caos creativo denso di suggestioni free form, collettivo che qui risulta particolarmente decisivo nel dare un’impronta maggiormente orchestrale alle partiture. Seppure la collaborazione con i Vampillia fosse iniziata mesi prima della disgrazia è proprio nell’impatto emozionale con il drammatico accadimento la radice dell’opera: la devastante sensazione di perdita, il senso d’impotenza, le varie fasi della tragedia, le immagini che potentemente ci parlano della morte e della ineluttabile sofferenza anche dei sopravissuti (pezzi di legno galleggiano sulle distese marine, il pensiero va conseguentemente all’idea che per qualcuno – che adesso non c’è più – sono stati parti di antiche dimore). Il mare ha sempre esercitato una suggestione importante sugli artisti, qui resa ancora più fortemente reattiva dall’onda d’urto dello tsunami, dall’incombenza delle radiazioni liberatesi, dalla scia di pestilenza contemporanea e malattia lasciata dall’incidente nucleare. Il mare ha sempre la capacità d’inglobare tutto ma la musica non riesce a definire questa completezza, restituendone in parte solo scorie e detriti, trasalimenti ed emozioni a malaperna contenute. È un canto tonale, piuttosto che melodico, un canto di gola giapponese chiamato rekukkara, frutto di un’antica tecnica, il momento più significativo di questa drammatica coreografia auditiva, che ci ricorda molto – in una maniera assolutamente non convenzionale – certe elegie funebri della tradizione anche occidentale, espressioni liriche che evidentemente riescono a travalicare spazi, tempi e culture, in questo caso pagando pegno alla stessa materia, oramai contaminata e destinata comunque ad un processo di lento e irreparabile degrado.

 

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