mire project: il monoscopio come specchio della società

mire.project

Facendo una ricerca online per la parola ‘mire’ la si trova in diversi casi come acronimo, quale ‘Interactive Media Research’ o ‘Monitoring Innovative Restructuring Europe’. Tuttavia per la lingua francese il suo principale significato letterale è ‘monoscopio’ e si riferisce al segnale televisivo, noto anche come immagine test, in genere trasmesso nelle ore in cui l’emittente è attiva ma nessun programma è in onda (spesso dunque in apertura o in chiusura).Quello che una volta era un segno molto comune mirato ad aiutare gli utenti a calibrare i loro apparecchi televisivi, ora si vede raramente al di fuori degli studi televisivi, delle post-produzioni o delle case di distribuzione dove viene invece ancora utilizzato per la calibratura e l’allineamento. Diversi fattori hanno condotto all’abbandono del monoscopio. Nei paesi sviluppati una delle cause principali sono gli imperativi finanziari delle televisioni commerciali dove il palinsesto viene riempito di programmi e spot pubblicitari 24 ore al giorno, e le emittenti non commerciali devono comunque sottostare a questa regola. Ed è proprio questo il concetto intorno al quale si sviluppa mire.project. Iniziato nel novembre del 2005, è inteso come progetto a lungo termine sulle espressioni della street art, a Parigi e in altri luoghi, attraverso il test pattern. Secondo il suo strettamente anonimo autore (anonimia che si conviene a ogni artista di strada), il monocromo è alllo stesso tempo un logo molto conosciuto ma senza fini commerciali. “Riassume in sé, con poche righe di colore e alcune gradazioni di grigio, l’intera era catodica, le sue conseguenze sul mondo e l’influenza che la televisione può avere su di noi”. Lo scopo del progetto è culturale più che politico: l’idea è di inviare un’immagine subliminale agli occhi della gente per innescare una riflessione su cosa la televisione sia diventata e sul fenomeno della dipendenza da schermo. Il monoscopio allora diventa schermo attraverso il quale la società riflette (su) se stessa.

Valentina Culatti