Labyrinth Zero, labirinto senza muri.

Labyrinth Zero

Fra le possibilità del codice dei videogame c’è certamente quella di stravolgere, visualizzandole, le ‘regole del gioco’ degli schemi classici. I labirinti, ad esempio, si fondano sulla ricerca del (o dei) percorsi che portano alla meta, obiettivo finale da raggiungere. In Labyrinth Zero, di Andrei R. Thomaz, lo stesso labirinto, o meglio i limiti che tracciano i possibili percorsi sono diventati invisibili, mettendo l’utente di fronte ad un’immediata evoluzione sensoriale che deve fare i conti con un’informazione rilevabile solo grazie all’impossibilità di procedere in una determinata direzione (il tutto navigando uno spazio in vrml). L’adattamento è difficile, e si viene aiutati dalla possibilità di far comparire le barriere ad intermittenza, dopo aver conquistato uno dei blocchi rossi sparsi nel percorso. L’invisibilità delle pareti e il doverne intuire la presenza per gli autori è la conseguenza di una visione di Borges da cui sono stati ispirati, in cui il deserto veniva paragonato ad un labirinto senza pareti, ma qui la metafora viene estesa ad uno spazio virtuale, le cui pareti sono codice che si attiva e disattiva visivamente tramite pochi parametri. Questa flebile differenza strutturale diventa un abisso percettivo che si estende alle regole del gioco, la cui difficoltà comporta l’instaurarsi di un percorso evolutivo.