Dust Bunny di Alan Warburton è un piccolo coniglio composto da “polveri raccolte da dieci workstation dedicate agli effetti visivi” presso lo Studio Mainframe. Il coniglio non è una forma accidentale, ma una rappresentazione esatta della cosiddetta Stanford Bunny, un oggetto per test in 3D che è stato creato nei seminali esperimenti di computer grafica presso la Stanford University. Questa icona viene ancora utilizzata per visualizzare i progressi nello sviluppo delle CGI. L’oggetto estremamente simbolico è composto di polvere “simil-angora”, materia che di solito può essere trovata nei case di computer aperti per la prima volta dopo alcuni anni. Warburton ha preso in considerazione la polvere da molte prospettive. Egli fa notare quanto reale e virtuale assurdamente collidono nella “polvere”, così come si lotta per avere abitazioni più pulite e spazi, liberandosi di essa, nonostante il suo inevitabile e consistente ritorno. Sull’altra estremità, nel mondo visivo simulato delle CGI (immagini generate da computer), poter creare polvere realistica è un must, se uno è da considerarsi un professionista. Inoltre il volume sorprendente di polvere che le workstation grafiche attraggono, in particolare, può essere rimosso solo con accurate procedure. La presenza inevitabile di polvere – la sua produzione lenta ma costante e praticamente inarrestabile – conferisce ad essa uno status speciale. Soprattutto se si considera anche quanto queste macchine sono al picco della produzione di cultura visiva digitale per le masse, questo complesso rapporto con qualcosa di così quotidiano denota la surreale costruzione che noi, come esseri umani abbiamo creato. Il nostro controllo sulla natura diventa privo di significato, così come esso s’infiltra dentro le nostre macchine, potenzialmente minando la loro capacità di calcolo. E così non sviluppa alcun senso di controllo su tutto il sistema digitale enormemente complesso, troppo. The Dust Bunny è solo lì a ricordarcelo perfettamente.