Sean Cubitt – The Practice of Light: A Genealogy of Visual Technologies from Prints to Pixels

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MIT Press, ISBN: 978-0262027656, English, 328 pages, 2014, USA

Il più recente libro di Sean Cubitt combina un alto livello di elaborazione intellettuale con dettagliati riferimenti a materiali di base. È inusuale trovare un libro nel campo della teoria dei media in grado di articolare tanti temi chiave – la storia della pittura, la stampa, l’incisione, la fotografia, il cinema, la televisione e i media digitali – con tale profondità e chiarezza. “The Practice of Light” non lo fa utilizzando concetti separati tematicamente e allo stesso tempo non è focalizzato su un media particolare, quanto piuttosto identifica scenari comuni, consentendo di trarre conclusioni più ampie. Il tempo trascorso a discutere della cultura materiale in relazione con le diverse pratiche dei media visivi permette all’autore di proporre una genealogia concreta degli elementi che hanno determinato la trasformazione storica dei vari media. La maniacale attenzione dedicata ai pigmenti, agli schermi, alle ottiche, ai prodotti chimici fotosensibili, ai sistemi di proiezione, alla celluloide e ai micro controllori d’immagini digitali (tra gli altri) cattura il lettore in un viaggio attraverso l’evoluzione del colore, delle line e delle superfici, delle strutture e dei livelli, dello spazio e della proiezione. Cubitt attribuisce un valore fondamentale al nero, parlando non solo dei diversi modi specifici che sono stati in grado di produrre superfici di questo tipo ma discutendo anche le complesse implicazioni sull’uso del nero come entità simbolica, per esempio la sua presenza nei chiaroscuri di Rembrandt o l’uso del bianco e nero nel film di Alexander Korda sempre sullo stesso Rembrandt. Così, concentrandosi su un particolare argomento di cultura materiale si rende necessario acquisire una comprensione dei concetti chiave della teoria dei visual media. Questa prospettiva critica è presente in tutto il libro e certo le concomitanti polemiche non sono evitate; per esempio, vi è una sana e pertinente discussione riguardante la natura indicale della fotografia, una domanda proposta decenni fa da Roland Barthes in merito d’un ritratto di sua madre. Questo lavoro è un aggiornato punto di riferimento nell’ambito della storia e della teoria dei media. Si tratta di una pubblicazione generosa e onesta, anche tenendo conto dei limiti imposti dall’autore (la decisione di non fare riferimenti fuori dallo specifico contesto, da come viene apparentemente percepito o di astenersi dalla discussione sul colonialismo nello studio della storia dei media). Il libro è un’investigazione sulla storicità dei visual media e sulla natura della visione alla luce del cambiamento tecnico, prendendo in considerazione l’appropriazione sociale dei media, utilizzando un variegato catalogo di sfumature per descrivere l’oscurità della verità. Andres Burbano