Open Your City – Share Festival 2012 Report

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Riappropriazione dello spazio urbano, visioni sulla città del futuro, partecipazione dal basso. Questo il filo conduttore di Share Festival 2012, traslato nei tre termini immediati e intuitivi che danno il titolo all’edizione: Open Your City. Una formula imperativa, che non implica soltanto la condivisione passiva di spazi e servizi, ma spinge a un ruolo attivo nel processo di transizione tecnologico e sociale che sta
investendo le nostre città. Le sei opere selezionate per la mostra Share Prize sono unite, secondo la giuria composta da Simona Lodi, Carlo Ratti, Bruce Sterling e Mirjam Struppek, da un denominatore comune: la rappresentazione di una città “dove l’elemento solido è sostituito dal messaggio, dalle informazioni e dai database, una città reale ma smaterializzata”. L’opera che offre l’immagine più chiara e incisiva della relazione tra città fisica e città digitale è Capacities: Real Time Complex – Connected Cities, a cui va il premio. L’artista inglese Stanza ha dato vita a un città emergente, costruita su dati quantitativi relativi a temperatura, pressione atmosferica, rumore e altre variabili ambientali. I dati sono raccolti in tempo reale attraverso una rete di sensori disseminati per Londra. I feedback dei sensori si riflettono in una città riprodotta materialmente con cavi, luci e parti di computer, dando luogo a una terza città di impronta gestaltica, in cui l’intero supera la somma delle parti. Un nuovo organismo che si genera dall’unione di elementi solidi e dati intangibili, grazie al ruolo fondante dei cittadini, da cui dipendono i cambiamenti nell’ambiente. Menzione d’onore per The Sentient City Survival Kit di Mark Shepard: un’opera frutto di una visione distopica della città del futuro, che ha inglobato sistemi informatici complessi nella sua struttura architettonica. Il risultato è una città dotata di organi di senso, in grado di acquisire e monitorare informazioni sulle nostre vite in modo continuo, capace di anticiparci, lasciando poco spazio alla casualità, alla libertà d’azione, all’imprevisto. Mark Shepard offre un kit di sopravvivenza per contrastare questa città senziente, che annovera biancheria intima dotata di sensori utili per non essere identificati, social network nascosti in tazze da viaggio, ombrelli per ripararci dalla sorveglianza urbana. L’attribuzione della menzione d’onore all’opera di Mark Shepard testimonia come il dibattito sulle smart city non si fondi su un cieco ottimismo nella tecnologia, ma si interroghi criticamente sui suoi benefici, limiti e rischi. Rischi legati soprattutto all’invadenza della nostra privacy e a un’iper-organizzazione delle nostre vite, che ci porterebbe a restare immobili, fermi su una strada definita dalle nostre scelte passate, precludendoci qualsiasi apertura al nuovo. Un’immagine positiva della futura comunità intelligente, rafforzata dal fatto che il progetto sia già stato sperimentato su un caso reale, è offerta al contrario da Tidepools di Jonathan Baldwin. Tidepools è una piattaforma su cui i cittadini di una ristretta area di Brooklyn, collegandosi a una rete wi-fi pubblica, possono implementare dati relativi a spazi e servizi urbani. I dati raccolti sono organizzati in una mappa informativa in grado di facilitare la vita dei cittadini, offrendo segnalazioni di ogni genere: dai luoghi in cui si è appena svolto un reato agli spostamenti in tempo reale dell’unico bus che copre la zona. Una rete collaborativa che permette agli abitanti di essere protagonisti della propria città, della sua vivibilità e del suo miglioramento. La cittadinanza diventa militante nell’opera SMSlingshot del collettivo berlinese VR/Urban. Tramite una fionda di legno costruita attorno a un dispositivo palmare, qualsiasi cittadino può digitare il proprio messaggio e lanciarlo sulle mura delle città, dove comparirà esaltato da una macchia di colore. Una performance urbana che materializza il diritto di intervenire nella res publica, trasformando la città in uno schermo urbano condiviso. L’atto fisico del lancio dà forma alla volontà di partecipare, di essere cittadinanza attiva. Anche SYN, installazione progettata da Mariano Leotta, rappresenta il rapporto tra reale e digitale dando fisicità alle inter-relazioni instaurate attraverso le reti sociali virtuali. L’opera riproduce in tempo reale le connessioni tra gli utenti che utilizzano un determinato hastag su Twitter, facendo attraversare da stimoli elettrici una struttura specchio dei processi sinaptici. SYN rende tangibile la condivisione delle informazioni, interpretandola come la rete neurale di un unico organismo. Contributi individuali che si uniscono dando vita a una proprietà emergente, definibile come “social brain”. L’ultimo lavoro selezionato è On Journalism #2 Typewriter di Julian Koschwitz. L’installazione opera come un demiurgo, rimodellando dati esistenti in nuovi contenuti autogenerativi. Si tratta di una macchina da scrivere analogica che, combinando diverse fonti di informazione relative a giornalisti uccisi in tutto il mondo a partire dal 1992, fa emergere un nuovo giornale. Un giornale che prende vita materialmente su un rotolo di carta infinito e la cui anima è un mash-up tra informazioni estratte da un database e quelle provenienti dal web e dai social media. Come contributo extra, un video dedicato al progetto Water Lilly di Cesare Griffa: un incubatore di componenti architettonici organici, dove crescono alghe da cui è possibile estrarre biocarburante. Queste strutture un giorno potrebbero ricoprire le mura e i tetti delle nostre abitazioni, in un’ottica di ecosostenibilità. Ad arricchire il programma, due mostre video: la proiezione delle opere vincitrici nella divisione Animazione del Japan Media Arts Festival e Dancing Hands, mostra di video-clip realizzati da registi e animatori sul tema delle mani, curata da Mirjam Struppek. Tra questi ultimi, menzione d’onore per City Lights Orchestra di Antoine Schmitt, una performance di crowdfunding che coinvolge la cittadinanza. Attraverso computer e smartphone collegati al website del progetto, chiunque può intervenire attivamente nella costruzione di una partitura di luci che attraversa la città trasformandola in un’opera d’arte collettiva, creata direttamente dalle mani degli abitanti. A chiudere il festival, numerose conferenze hanno analizzato il concetto di open e smart city, interrogandosi sul ruolo dell’arte nel processo di transizione verso la città del futuro. Tra i relatori, Simone Arcagni, Lorenzo Benussi, Martijn De Waal, Davide Gomba, Simona Lodi, Jaromil, Alan Shapiro, Bruce Sterling, Fabrizio Valpreda. Come si può tradurre concretamente il termine open nell’ambito dell’arte e della tecnologia? Si traduce in un’apertura che coinvolge – e stravolge – le tradizionali logiche di produzione, distribuzione e fruizione delle opere d’arte e dei prodotti tecnologici. Declinazioni che portano alla nascita e allo sviluppo di paradigmi come quelli di open source, copyleft, peer to peer, user generated content, DIY. Fabrizio Valpreda e Davide Gomba hanno immaginato una città di makerspaces, governata da sistemi di gestione della conoscenza basati sulla condivisione di informazioni, strumenti e tecnologie, sistemi che seguiranno a una profonda rivoluzione culturale e sociale già in atto. Simona Lodi, Lorenzo Benussi, Simone Arcagni e Bruce Sterling hanno presentato il Manifesto Smart City, che si propone come inizio di una tavola rotonda per ideare la città in cui vorremo vivere domani. Il progetto parte con una wiki aperta, in cui raccogliere idee e contributi che confluiranno in un documento da presentare ai funzionari delle amministrazioni cittadine. Un argomento ancora tutto da dibattere, ma che secondo Simona Lodi dovrà poggiare su un punto fermo: il ruolo insostituibile della cultura e dell’open knowledge come mattoni fondanti delle nuove città. La smart city sarà una comunità intelligente, dotata di una tecnologia al servizio di chi la abita e la vive. Lorenzo Benussi ha posto l’accento sull’importanza degli open data, per far sì che la città diventi un luogo trasparente. Non nel senso di renderci visibili agli occhi di un controllore, ma di rendere disponibili a tutti un’immensa mole di dati che, se resi pubblici, potrebbero portare ricchezza economica e sociale. Il pubblico accesso alle informazioni è il presupposto per creare una comunità veramente libera. Ma oltre che intelligente, la città deve essere una comunità in senso forte. La Smart City deve diventare una Social City. Come evidenziato da Martijn De Waal
, se cerchiamo “smart city” su Google Images troveremo immagini di città perfette, ma vuote. Città senz’anima. Dove sono le persone? Le città non si esauriscono nella loro architettura, ma devono essere spazi e occasioni di condivisione e partecipazione. A questo proposito, diversi i nodi critici messi a nudo nel corso delle conferenze: come si può concretizzare la partecipazione dal basso, se esiste un evidente scollamento tra chi parla il linguaggio digitale e chi no? Il termine smart non è un termine di per sé elitario? Non basta coinvolgere gli ingegneri nel processo di sviluppo delle nuove città, è necessario affidare un ruolo anche agli artisti. Ed è necessario inoltre coinvolgere i proprietari delle chiavi delle città, che sono le persone, tutte. Il pericolo che la tecnologia si ritorca contro se stessa, che porti a un’oligarchia tecnologica, all’individualismo anziché alla condivisione, è presente. Le stessa tecnologia che può essere piegata a favore della costituzione di spazi comunicativi pubblici ha come rischio quello di portare a vivere sempre meno questi spazi pubblici e a ripiegarsi in una spirale di egoità. ll Manifesto Smart City vuole soddisfare la doppia esigenza di partecipazione e amplificazione della voce di tutti, e vuole farlo adesso. Per disegnare una città utopica, ma non irraggiungibile.

Ylenia Cafaro