Paul Baran – Panoptic

Paul Baran

CD – Fang Bomb
Svetta rauca una voce, inizia così in “Scotona Song” un obliquo siparietto cantato, dagli accenti walkie-talkie e con organo ronzante, nenia appena caratterizzata da minimali ma espressivi elementi musicali. “Panoptic” di Paul Baran prosegue poi altrettanto in bilico fra influenze molteplici, in una sorta d’avant-jazz melanconico, di strumentale fattura, concettuale ed elettro-acustica ibrida produzione. Sequenze ispirate, sviluppate in più registrazioni effettuate fra Glasgow e Vienna, organizzando una serie di destrutturate ballad per le quali abbondano feconde le collaborazioni, coinvolgendo musicisti come Werner Dafeldecker, Keith Rowe, Ekkehard Ehlers, Timothy Cooper e Andrea Belfi, oltre a diversi altri che per mancanza di spazio adesso non citeremo. Ispirazioni che fanno leva sull’oppressivo senso di vigilanza perpetua insito nell’idea di panopticon, “architettura del controllo” ma anche luogo di una spietata sperimentazione ed analisi. “Ogni forma d’identità non è mai pura”, questo – in altri ma analoghi ragionamenti – suggerisce Michel Foucault in “Sorvegliare e punire. Nascita della prigione”, cruciale saggio di metà anni settanta che poi diverrà un riferimento assoluto nelle discussioni sulla società disciplinare. Alla stessa maniera anche in queste undici incisioni le radici non sono mai certe e le sibilline concatenazioni proliferano inquietanti e contagiose. Segnali incrociati e fraseggi ellittici, sincopati, nella forma libera d’una non-scrittura polifonica che abbonda per pattern e molteplici progettualità, liberi di spaziare fra più possibili “stati di realtà” ma non d’eludere l’innaturale costrizione.