Pasajes. Viajes por el híper-espacio [Passages. Travels in Hyperspace], 2010, report from Laboral

Pasajes. Viajes por el híper-espacio

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Passare attraverso imponenti colonne greche fatte di neon, che citano le scanalature tipiche di quelle antiche, suggerisce immediatamente la sensazione che si sta superando una soglia che non è solo spaziale. Con questa evocazione (l’opera è Untitled, 2008 di Cerith Wyn Evans) inizia il percorso attraverso la mostra “Pasajes, viajes por el hiper-spacio”, inauguratasi al Laboral il 6 Ottobre scorso. I pezzi sono tutti selezionati dalla collezione della galleria Thyssen-Bornemisza Art Contemporary di Vienna. L’intenzione dei curatori (Daniela Zyman e Benjamin Weil, fugaci apparizioni durante la conferenza stampa sostituiti nella visita guidata dall’eclettica Francesca von Habsburg direttrice e collezionista della galleria Thyssen-Bornemisza) è quella di un percorso di visita fluido, un movimento attraverso lo spazio dell’esposizione, che sia parallelo a quello interiore del visitatore: partendo dalla fisicità imponente e plastica delle opere si può invadere la dimensione dell’arte e rileggere la realtà attraverso di essa. Il passaggio in questo iperspazio di riflessione, può avvenire a diversi livelli. Sovvertendo, per esempio, il rapporto quotidiano con l’esterno. Gli oggetti d’uso, presenti in molte delle opere in mostra, diventano i “gate” proposti per questo passaggio. L’enorme abat-jour di Ai Weiwei (Traveling Light, 2007) luccica di cristalli pendenti che avvolgono una colonna lignea, un tempo pilastro di un tempio della dinastia Ming: pur così radicato nel passato, sembra illuminare un (forse) più luminoso futuro. Una jungla di pizzi, di quelli dozzinali, orribili che solitamente ornano le finestre da cucina, fa da sipario a video claustrofobici di donne schiacciate su vetri di finestre serrate; i tessuti soffocano lo spazio espositivo così come la vita cittadina intrappola quotidianamente gli individui. Claustrofobica è anche l’ironica opera M10, 2004 di Monika Sosnowska, con le sue porte identiche una dentro l’altra che conducono inutilmente ad ambienti sempre più piccoli. Non troviamo queste trasposizioni simboliche in altre opere che invece rappresentano fisicamente l’attraversamento di un varco. Fatato, come la candida “experience sculptures” Esqueleto Glóbulos di Ernesto Neto, fatta di nylon, palline di polistirolo e spezie profumate, che si autosostiene senza una scheletro rigido ma solo grazie ad un delicatissimo gioco di pesi e gravità. Oppure un varco ludico come il famoso Y, di Carsten Höller, che in un’atmosfera da luna park può creare allucinazioni con il gioco ipnotico di luci lampeggianti.
Ma passaggio nell’iperspazio può significare anche un movimento tutto interno all’individuo. L’io esplode, rifratto in colori come fosse un fascio di luce attraversato da un prisma, in Your uncertain shadow (colour), 2010 di Olafur Eliasson; ritratto e interpretato da penne diverse, come nei 50 ritratti di sè in Super-Noi, di Maurizio Cattelan; riflesso da squame di specchi in continuo leggero movimento (No History, 2005 Doug Aitken) che, a loro volta si riflettono reciprocamente in un rimbalzo senza inizio nè fine. L’iperspazio può essere anche quello che si manifesta solo tramite le tecnologie. Muovendosi all’interno della ragnatela di cavi che segnono il limite dell’opera Asynchronous Jitter. Selective Hearing (37’19”), di lorian Hecker difficilmente si riesce a discernere la fonte di provenienza del suono che si percepisce: in qualsiasi direzione ci si muova il suono sembra sempre provenire dalla cassa a cui non ci si è avvicinati, come all’interno di un (destabilizzante) limbo sonoro. Al contrario telefunken (wtc), 2000/2010 di Carsten Nicolai offre uno spazio visivo al suono: il segnale audio di un lettore CD è collegato all’ingresso video di un monitor TV. Il suono prodotto dalle onde viene catturato materialmente come particelle, e si trasforma in qualcosa di visibile e tangibile.
ll dialogo tra le opere proposte e il mondo reale, di una realtà che, per usare le parole di Francesca von Habsburg, “imiti l’arte” e non viceversa, rimane tuttavia aperto. La sensazione finale è quella di aver attraversato meravigliosi varchi, con alle spalle colonne d’Ercole e specchi magici. Ma il ritorno è ebbro di luci e insieme vago, piuttosto che armato nuovi strumenti di lettura. Un infinito ciclo di porte che continuano sempre ad aprirsi e di identità che non smettono di moltiplicarsi.

Chiara Ciociola