Isea 2008 Singapore report

ISEA 2008

ISEA 2008 photo set

Più di un dubbio ha sollevato la scelta di Singapore come città ospitante l’edizione 2008 di ISEA, e quasi istantaneamente è tornata in mente la definizione di William Gibson creata dieci anni fa sulle pagine di Wired: “Disneyland con la pena di morte”. In un ambiente urbano pressoché immacolato, le minacce alla libertà d’espressione sono dietro l’angolo e un’opera d’arte controversa che critichi l’operato del governo non sarà pubblicamente tollerata, anche se i cittadini dello stato si dimostreranno segretamente solidali con essa. Ma il governo più paternalistico del mondo mira anche a trasformare Singapore nell’hub asiatico più importante nella creatività dei nuovi media, con la loro “Media Development Authority” che vi sta investendo un’incredibile quantità di fondi. Ed è entro queste contraddittorie premesse che ISEA ha potuto contare su un inedito supporto istituzionale. La sua essenza (le sei o anche più sessioni conferenze parallele) è defluita senza intoppi nelle due grandi Università coinvolte (la Singapore Management University e la Nanyang Technological University) per quattro giorni con molti spunti interessanti, e a volte con performance inaspettate dei relatori. In questo sovraccarico informativo era necessario, come al solito, consultare continuamente il proprio network personale di conoscenti per cogliere al volo le conferenze più interessanti, spesso mancate per puro caso. Un’altra parte certamente importante per i circa 300 ospiti è stata quella dei summit e delle sessioni. Il meeting della General Inter-Society for the Electronic Arts (ISEA) ha raccolto il board dell’organizzazione e alcuni degli accademici più attivi (fortunatamente in maggioranza donne). Uno dei momenti più interessanti è avvenuto quando durante un break, è stato “ordinato” ai partecipanti di parlare con qualcuno che non conoscevano già. D’altra parte ISEA è diventato annuale (il che potrebbe essere troppo per questa manifestazione), per cui nel 2009 si svolgerà a Belfast, e nel 2010 nella zona della Ruhr in Germania. Tornando ai panel popolari, quello organizzato dal network Kurator ha affrontato le nuove forme curatoriali aperte, rese possibili da tecnologie sociali, sollevando (ancora) i soliti argomenti controversi e le paure di ogni sistema aperto, ma nonostante ciò i partecipanti sono stati in grado di spingere ancora una volta le loro istanze. Su un altro fronte, il “Mini Summit of new media art policy and practice” sovvenzionato dalla Asia-Europe Foundation è risultato essere molto promettente, mettendo intorno ad un tavolo accademici, artisti e organizzazioni su opportunità concrete di sviluppo etico nell’area del sud est asiatico. Infine la sessione Luminous Green (organizzata dall’omonimo gruppo) è stata affollata, focalizzandosi sulle relazioni fra arte e tecnologia dalla prospettiva della sostenibilità ambientale, attraverso una sessione di brainstorming con i partecipanti, autorizzati a passare da un gruppo di discussione all’altro: una maniera di condividere pratiche e paure ambientali con altre persone, in una sorta di sessione collettiva di incubatore d’idee, alquanto terapeutica. Fra le diverse mostra, quella curata dalla giuria di ISEA è stata ospitata negli ampi spazi del National Museum, e ha sfoggiato progetti sviluppati insieme a prestigiose collaborazioni internazionali attraverso un programma di residenze lunghe tre mesi, effettuate in laboratori di ricerca high tech dislocati nelle varie istituzioni di Singapore, oltre ad essere spesso radicati nei vari background culturali delle nazioni circostanti. Fra questi: “Sourcing Water” di Shiho Fukuhara e Georg Tremmel che hanno approcciato il problema dell’approvvigionamento idrico nella città stato, visto che Singapore non dispone di risorse d’acqua proprie, e le importa soprattutto dalla Malesia. I due hanno ravvivato le pratiche esoteriche rabdomanti equipaggiate stavolta con GPS e sensori di movimento per compilare infine una mappa delle sorgenti d’acqua “sospette” nel sottosuolo. “The Global Bridge Symphony” di Jodi Rose invece è una connessione sonora con infrastrutture urbane connettive (i ponti). La tensione dei cavi di sostegno genera suoni che sono poi registrati ed ascoltati nello spazio dello mostra. Il collettivo serbo Eastwood ha invece costruito il suo videogame “Civilization V”, facendo un metaforico porting delle strategie di marketing delle multinazionali del web 2.0 in un gioco estremo di strategia; “DIY GORI’s: seed_1216944000” di Jee Hyun Oh ha immortalato nel tempo in un rotolo di carta dalla lunghezza impressionante uno specifico momento di un progetto documentato su un wiki, dandogli quindi una specifica dimensione spaziale; Il lavoro di Kelly Jaclynn Andres, “Finally, We Hear One Another”, brillantemente rendeva, invece, due persone coscienti delle loro conversazioni effettuate sui rispettivi telefoni cellulari, incorporando per un periodo limitato di tempo uno scambio di personalità espresso attraverso un medium vocale e in tempo reale. “Relocations” è un’altra piccola mostra focalizzatasi su due artisti malesi (Hasnul Jamal Saidon e Niranjan Rajah) Il loro lavoro può essere contestualizzato nella definizione di “post-colonial”, ma i loro esperimenti con il video e il web incorporano critica e ironia a partire dalla metà degli anni novanta, inserendoli fra i più importanti pionieri locali. “Cloudland” è stata invece organizzata alla galleria “The Substation” dall’Aotearoa Digital Arts, il più importante collettivo di digital art neozelandese che ha recentemente pubblicato un libro storico sulla media art nazionale. In mostra “Composition for farmer…” di Alex Monteith una coreografia unica fatta da tre cani e 120 pecore con una melanconica e involontaria melodia eseguita dai fischi di richiamo del pastore e gli abbai dei cani, con la scena che si muove lungo una lunga proiezione occupante un intero muro. Degno di nota lo storico film sperimentale in 16 mm del 1958 “Free Radicals” di Len Lye e diversi lavori di sound art. Gli artisti svizzeri sono stati supportati invece in “Lucid Fields”, un’altra piccola mostra documentativa ospitata nella stupefacente architettura del Lasalle College of Arts. E’ stato anche celebrato con una notte di performance fra le quali: “Kubic’s Cube” di Pablo Ventura, un robot a “bracci” in alluminio di due metri e mezzo di altezza, appeso alla cima di una struttura in metallo, che danza meccanicamente alla musica di Francisco López, e l’affascinante noise degli untitled_sound_objects, un notevole duo che ha usato piccole quantità di vari minuscoli materiali metallici o vetrosi, inducendo delle vibrazioni e manipolandone i conseguenti suoni astratti e amplificati. Una performance abbastanza nota ha avuto luogo nello spazio “72-13”. “Spektr!” è stato il titolo dato alle intercettazioni vecchie e nuove di dati, condensate in tempo reale su un grande schermo da Marko Pelihan e i suoi tre partner. Il suo lungo progetto di raccogliere dati “intercettati” va avanti e non manca di destabilizzare gli spettatori. Infine il keynote di Lawrence Lessig, preparato in maniera certosina ha ipnotizzato un’intera aula magna piena di spettatori con un ritmo perfetto e i soliti limpidi argomenti. Fra le performance di chiusura: il noise indonesiano e i visual astratti di Venzha and House of Natural Fibers (che sfoggiavano un pesante agglomerato hardware indossabile), e il locale Choy Ka Fai / TheatreWorks che ha composto un’interpretazione di onde sonore graficamente appagante, con segnali elettromagnetici e frequenze radio ottenute attraverso un’indagine della Syronan Jinja Shinto Shrine e della foresta circostante. Con un tale spiegamento di uomini e risorse, per non parlare dei faraonici piani per nuove sedi e infrastrutture finalizzate alla “educazione della creative class”, accoppiate ad una stagnante Europa e agli USA in recessione, la nuova scossa alla new media art arriverà da Est ed eventualmente vicino all’equatore?