Ars Electronica 2006 – Simplicity report

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Nell’arco degli ultimi dieci anni i temi di Ars Electronica festival hanno formalmente cercato di essere cartina tornasole per quanto stava accadendo sulla scena digitale. Se nel 2003, epifania della software art, oggetto di indagine era ‘CODE, The language of our times’, nel 2002, a ridosso dello scoppio della guerra in Iraq, si parlava di ‘Unplugged, Art as the Scene of Global Conflict’. Viene naturale pertanto domandarsi perché l’edizione 2006 titolasse Simplicity. In che modo la semplicità è specchio delle tendenze artistiche attuali? Olga Gourinova, una delle artiste invitate a interrogarsi sul tema, si chiede se la scelta non sia indice di crisi. Il ritorno alle ‘cose semplici’ infatti è una tipica reazione umana ai momenti di impasse, quella stessa paralisi che viene imputata oggi alla new media art. Secondo il gioco degli opposti, però, Semplicity è anche sintomo di maturità: si è semplici quando si padroneggia la materia, quando si dominano i contenuti, quando si conosce l’essenza delle cose e la si trasforma in un algoritmo, o in dieci regole come quelle di John Maeda. Il visual artist e ricercatore del MIT, indiscusso protagonista di Ars Electronica 2006, si è interrogato sul tema Simplicity in un libro omonimo pubblicato per Mit Press e ha fatto del suo decalogo il filo conduttore del simposium e dei talk che è l’organizzazione del festival gli ha affidato, per non parlare della sua mostra personale allestita al Lentos museum. Dalla riduzione, al risparmio di tempo, passando per l’apprendimento, i tentativi e il fallimento, Maeda sintetizza l’elisir della semplicità in “subtracting the obvious and adding the meaningful”. Ma se, paradossalmente, ciò che il guru insegna ha in sé dell’ovvio, tuttavia incanta il modo in cui ragiona. Come scrive Paola Antonelli, curatrice del dipartimento architettura e design del Museum of Modern Art (NY), infatti, la parte più importante del lavoro di Maeda non è il risultato finale, quanto il processo al quale affida la complessità del ragionamento. Al fine di investigare le contraddizioni insite nella ‘simplexity’ Ars Electronica ha organizzato un giorno di ritiro, ‘Going to the Country’, spostando tutte le attività a St.Florian, un paesino di campagna con uno splendido monastero barocco. L’abbazia, secolare luogo di meditazione, è stato il set ideale per amplificare l’ambiguità: da un lato la spiritualità e l’isolamento come indice di semplicità, dall’altro l’arte barocca e i suoi orpelli a simboleggiare l’articolato e il superfluo. La concomitanza stessa di eventi, tra installazioni, workshops e conferenze, impone al visitatore di scegliere tra più opzioni. Trait d’union è il percorso musicale che unisce la musica d’organo ai suoni campionati. In collaborazione con l’organista del monastero Robert Kovacs, due dei protagonisti del collettivo Spire, Mike Harding and Charles Matthews, hanno descritto un percorso che cominciava alle origini della musica e culminava nei loop digitali e nelle trasformazioni tonali di Christian Fennez. Vibravano le canne dell’organo Brukner alle note scritte da Bach (altro alchimista della simplexity), e la chiesa risuonava di noise con l’altare ‘profanato’ dal giradischi di Philip Jeck. ‘Antiqua novitati concordabimus’ sembra essere l’iscrizione perfetta per introdurre la composizione di Michael Nyman che ha fatto suonare alla sua maniera le 8 campane del monastero accordate in C maggiore nel suo proprio stile. Semplicità è anche ritorno alla fisicità. Tmema’, la conferenza/performance di Erkki Huhtamo è stata intrigante e basata sull ‘mano’ e i suoi molti riferimenti nell’arte mediale, pop e culturali. Essa era interrotta da tre performances di Golan Levin e Zachary Liebermann. Molti erano i progetti e le installazioni che coinvolgevano il corpo. Alcuni di essi erano in mostra all’O.K. Centrum, come il ‘Khronos Projector’ di Alvaro Cassinelli dove la ferma pressione di una mano svelava un’altra prospettiva o un altro tempo della realtà proiettata. ‘Ocular Witness’ di Arjian Kajfes, è invece una serie di installazioni che ha a che fare con la luce e il vedere, tematizza la luce tanto in senso fisico quanto metaforico come barriera per l’informazione e il significato. ‘Thermoesthesia’ di Kumiko Kushiyama è invece un tavolo che attraverso un touch pad permette ai visitatori di percepire le differenti temperature di una serie di immagini. Fisica è anche parte dell’interazione di ‘Machine-mensch’ di Christopher Rhomberg e Tobias Zucali, una catena di montaggio dove il creatore umano viene assoggettato dalla macchina. In ‘Office Live’ del Techart Group, un sarcastico lavoro sugli uffici auto-funzionanti del ventunesimo secolo, tutto comincia con il movimento di un pesce rosso che attiva una reazione a catena di diversi e distanti meccanismi che alla fine gli permettono di essere sfamato. Fra i progetti degli studenti del Medialab della University of Art and Design di Helsinki, il ‘Sankari Show’ era fra i pochi con una chiara focalizzazione, implementando in un format televisivo un transfer psicologico da alcuni membri dell’audience che dicono al protagonista cosa fare. Diversi altri progetti di studenti sono stati presentati nella mostra ‘Interface Culture’ (fatta dalla Kunst Universitat Linz). Ma il coreografico ‘The Digital Barrel-Organ’ di Bernhard Pusch (un vecchio organo a manovella con una gestione delle playlist completamente digitale) era un raro esempio, nel suo contesto, di interfaccia innovativa, offerta di contenuti e intervento sociale. Sempre nel contesto delle interfacce sembravano trovarsi anche il giocoso ‘The Sancho Plan’ (dell’omonimo gruppo), dove l’utente poteva controllare caratteri animati attraverso drum pad elettronici, e ‘Nomadix: interaction on the move!’ degli Hyperwerk, una sorta di lampada mobile con un proiettore cinetico all’interno. Altri lavori degni di nota sono stati ‘The Messenger’ di Paul DeMarinis, un’ampia installazione dove ogni lettera delle email ricevute muoveva una diversa rappresentazione fisica di segnali elettronici (i barattoli con le diverse lettere nel liquido verde erano fra gli oggetti più fotografati del festival). Anche ‘Hello World!’ di Yunchul Kim era un sistema per archiviare dati solo attraverso segnali acustici usando casse acustiche, microfoni e tubi di rame. Questi ultimi erano gli elementi chiave grazie alle loro proprietà di ritardo acustico. E nella sfera sonora c’erano le performance uniche dello Staalplaat Soundsystem duo. Concludendo i riferimenti alle interfacce, due progetti erano certamente al di là delle aspettative: il simulatore di volo destrutturato e automatico Retroyou_nostal(g) di Joan Leandre e il destabilizzante Random Screen di Aram Bartholl (un apparente pannello d’arredamento con grandi pixel illuminati, che visto da dietro rivelava essere illuminato da un sistema di lattine di birra tagliate, che ruotavano grazie all’aria calda generata da piccole candele. Come afferma Christine Schopf, direttore artistico di Ars Electronica, ‘fornire soluzioni intelligenti e semplici per obiettivi complessi e multidimensionali è al momento la sfida principale che dobbiamo porci. Il che si traduce nell’applicazione dell’information technology alle forme d’arte ma anche a tutti gli aspetti della vita nella nostra società”.

Valentina Culatti