Alvin, sonic incubator.

Alvin

I meccanismi software di generazione musicale, passano nella maggior parte dei casi attraverso tecniche di intelligenza artificiale, più o meno sosfisticate. Generalmente le promesse mancate dell’IA, ossia l’ancora troppo acerba simulazione dei processi neuronali si riflette in altrettanto poveri risultati compositivi. In Alvin, sonic incubator di Jamie O’Shea, invece implementa con accuratezza i meccanismi di una rete neurale ad un’apparecchiatura hardware in cui otto diverse ‘cellule’ producono suoni determinati dal comportamento reciproco. Le connessioni fra le cellule sono interrotte o ripristinate fisicamente (invece che semplicemente attivati/disattivati) attraverso le vibrazioni sonore che scuotono della polvere d’acciaio, determinandole. In questo modo gli speaker si configurano come ‘creature’ capaci d’interagire fra loro. Le frequenze vanno dalle subsoniche .5 hz ai 100 Hz incrementandosi tanti maggiori sono gli input (e quindi le relazioni instaurate). A volte le cellule si disconnettono a vicenda, ricominciando il loro porcesso evolutivo. Questo, comunque può anche essere indotto dall’utente attraverso due pulsanti che inaugurano un nuovo processo (‘procreate’/learn) oppure lo terminano (‘die’/forget), per quanto spesso esse si rifiutano di ‘terminarsi’ del tutto. Questa netta separazione dei processi meccanici e ed elaborativi, con evidenti discrepanze poco prevedibili è dichiaratamente nelle intenzioni dell’autore e produce una visione macroscopica della fragile interazione fra analogico e computazionale, citando indirettamente la stessa complicata convivenza fra suoni della rispettiva natura.