Skin Gun, la rimediazione del corpo.

Per rappresentare l’idea della violenza nella società e mostrare simbolicamente ciò che l’utilizzo di un’arma può causare al corpo umano, l’artista olandese Joanneke Meester ha riprodotto ‘Skin Gun’, una pistola, della grandezza di una scatola di fiammiferi, trattando un brandello di pelle, in precedenza fatto asportare chirurgicamente dal suo stesso addome. L’opera è stata esibita in una teca di vetro durante l’Amsterdam Art Show, dall’8 al 16 maggio scorso. “Se ognuno di noi arrivasse a realizzare una pistola con la propria pelle, ritengo che ci penserebbe due volte prima di usarla”, questo è il messaggio che l’artista ha voluto comunicare, attraverso un’azione che richiama l’attenzione sul corpo e sul prodotto ottenuto dal corpo stesso, entrambi investiti del ruolo di media e depositari di specifici segni culturali e sociali. Considerato che, fin da Klein e Manzoni, il corpo si è mostrato agente dell’arte, nonché materia espressiva della Body Art e delle artiste che negli anni ’90 hanno raccolto l’eredità di Gina Pane, si può giungere a riflettere su come attualmente la cultura contemporanea giochi a confondere ed abbattere, per poi “rimediare”, i confini tra corpo e mondo, e tra corpo e tecnologia (Bolter-Grusin). Osserviamo pertanto il corpo umano agire come un medium che si esprime attraverso la scelta di oggetti tradizionali quali i vestiti e i gioielli, espressioni decorative che sembrano rispettare i confini tra il corpo, appunto, e il mondo esterno, oppure attraverso mezzi più radicali ed estremi quali il body building, il tattooing, il piercing, il branding, il cutting, l’impianto di parti meccaniche da parte di Stelarc e, in ultima analisi, la chirurgia estetica, nel caso di Orlan; manifestazioni artistiche in un primo momento disturbanti, le quali però possono essere interpretate anche attraverso l’idea della libera accettazione del dolore fisico e della morte come parte di un ciclo naturale Vita-Morte-Vita (Pinkola Estés), o come forma di ‘martirio’, ossia morte nella quale appare ciò che in essa accade – e in cui si fondono realtà e rappresentazione – concetto, quest’ultimo, che ritroviamo nelle parole di Karl Rahner sull’Uomo, il quale “dovrebbe avere dunque una libertà, liberamente amata, per la morte. (É) Se lÕuomo pensa la morte soltanto con l’ottusa volontà di vivere della bestia, si sottrae ad essa, si lega direttamente solo alla vitale paura dell’esistenza di fronte al dolore; (É) la trascendenza (É) è vera soltanto nella forma della cognizione, liberamente ammessa, del proprio essere votati alla morte.”